Intervista a Lucia Vaccarella

– Vero, è passato molto tempo, ma non dimentichiamo che nel frattempo ci sono stati anni terribili come quelli del Covid che ci hanno letteralmente paralizzato. E poi, ci sono i tempi dell’editore da rispettare. Fra l’altro non ho mai pensato che sia necessario, per chi scrive, rispettare scadenze precostituite fra una pubblicazione e l’altra. Si scrive quando si ha qualcosa da dire, si pubblica di conseguenza. Sono al di fuori di queste logiche che a mio avviso producono spesso solo brutti risultati. Pubblicare per pubblicare no

– La prima presentazione di un proprio lavoro è sempre emozionante. Ci si sente inevitabilmente sotto esame. Ho un ricordo molto bello di quella serata ma anche delle altre presentazioni che sono seguite, ognuna in fondo è la “prima volta” perché cambiano luoghi e pubblico. Di tutte queste occasioni mi porto dentro la bella sensazione dell’accoglienza.

– Il riconoscimento più grande è sempre quello del pubblico. Sapere che il tuo libro viaggia e raggiunge luoghi lontani, persone che non si conoscono e si ritrovano in quello che scrivi è sempre consolante. Ricevere attestazioni di stima e/o anche critiche nutrono la voglia di mettersi ancora in gioco e migliorare.

– Il professor Nacci che considero il mio Mentore e a cui devo infinita gratitudine per aver avuto per primo fiducia nelle mie capacità di scrittrice è sicuramente un punto di riferimento, ma non ha mai condizionato o indirizzato le mie scelte. In realtà amo i racconti da sempre e trovo che costituiscano un genere troppo poco apprezzato in Italia pur avendo Maestri di grossa levatura. Da ragazzina ero un’accanita lettrice dei racconti de Le mille e una notte e di quelli di Edgar Allan Poe, come studentessa ho imparato ad amare i racconti della grande tradizione italiana, dalle novelle di Boccaccio a quelle di Verga e Pirandello, per poi accostarmi ai racconti di Tommaso Landolfi, Moravia, Svevo etc, ma in particolare a quelli di Dino Buzzati su cui ho svolto la mia tesi di laurea. Vogliamo allora parlare di imprinting? Ancora oggi ho sul comodino La boutique del mistero, Le notti difficili accanto ai racconti bellissimi di Parise, a quelli meravigliosi sul Male di Nacci e a Le Voci mute di Fiorella Borin – amica cara e mio insostituibile coach – poi quelli stranieri, dai classici come Checov , la Wolf, a quelli americani come Carver, Berlin , O’Connor etc. All’estero il genere del racconto, ripeto, è molto più apprezzato che da noi.

– Non ho mai amato le ideologie manicheiste che dividono le categorie di Bene e Male facendole coincidere con vincitori e vinti. Bene e male sono presenti in entrambi, perché luce e ombra sono in ciascuno di noi esseri umani, capaci di grandi e ignobili imprese. E ho sempre insegnato ai miei alunni a ragionare con la loro testa, a formarsi uno spirito critico, ad indagare in autonomia, anche perché gli stessi manuali scolastici sono di parte. Il genocidio degli ebrei costituisce una pagina tremenda, al pari della tragedia delle foibe e dell’esodo che ha riguardato tanti italiani e che tanti italiani ignorano ancora. A chi dice che non sono paragonabili rispondo che il male è male sempre e chi uccide un uomo uccide l’universo intero. Il compito della Storia dovrebbe essere proprio quello di indagare con imparzialità, non riserbare zone d’ombra alle aberrazioni della guerra. Diceva Shakespeare che tutta la terra del mondo non basterebbe a impedire alla verità di venire in superficie. Credo debba essere così e che oggi soprattutto sia necessario il superamento di barriere ideologiche, che ahimè sopravvivono, per creare un’unica coscienza condivisa. Ma siamo lontanissimi da questa speranza: le guerre di oggi nelle varie parti del mondo ci dicono che nulla è cambiato, forse è l’uomo stesso l’infezione del mondo. Proprio per questo bisogna mostrare la ferita del male, ovunque essa sia, e ancora ancora, e sempre, per tentare di trovare una cura.

– Lei si riferisce ovviamente a un mio racconto. Ma io non spoilero… Posso solo dire che errare est humanum, perseverare diabolicum.

– Contenta che questa parola l’abbia colpita. Vuol dire che il racconto ha smosso qualcosa. Ma il racconto vuole perseguire proprio questo intento: aprire una finestra, poi chiuderla. Al lettore immaginare…

– Non ce n’è uno in particolare. Tutti mi sono ugualmente cari perché nascono da momenti importanti e unici. Sono tutti figli di un’unica mente, piccoli squarci sul mondo.

– Da sempre. È una cifra della mia famiglia, la trovo salvifica anche negli inevitabili momenti bui della vita anche se il rischio che si scivoli nel sarcasmo è sempre in agguato. E c’è una bella differenza, di fondo la differenza che intercorre tra la serena accettazione degli altri e il rancore per l’umanità. Spero di non diventarlo mai, sarcastica.

– Ho nostalgia dei ragazzi, quello sì, della scuola come istituzione ormai alla deriva, no. Ammiro molto i giovani che si accostano a questa professione con entusiasmo. Hanno pareti ripide da scalare davanti a sé, ma è solo chi crede a questo lavoro che può creare il cambiamento.

– Sì, non sono una persona sola in termine di affetti, ma solitaria sì. Mi annoiano le situazioni e le occasioni di superficialità, le persone continuamente appese a parole inutili. Preferisco starmene per conto mio e osservare. Questo non vuol dire che sono asociale, però. Al di là dei miei punti di riferimento amicali, mi capita spesso di intrattenermi in piacevoli conversazioni con persone incontrate per caso, in circostanze diverse. A una mostra davanti a un quadro, sul treno, in uno stabilimento balneare. Ieri, per esempio, al cinema ho avuto un amabile scambio di idee con una coppia seduta vicino a me. A naso ci siamo “riconosciuti” come persone che avevano un quid in comune: è stato un momento prezioso.

– Perché è lo specchio di tempi beceri, sguaiati, dai falsi valori. Rimpiango la tv di qualità di una volta che faceva cultura anche con gli sceneggiati.

– Avrà sempre senso, finché esisterà l’umanità.

– Ogni tempo rimpiange quello passato, dall’età dei nostri Padri greci. È inevitabile. E le piaghe rimproverate al presente sono sempre le stesse. In realtà l’uomo è da sempre lo stesso…dell’oggi l’unica cosa che temo davvero è l’Intelligenza artificiale che può essere malamente usata. Diciamo che auspicherei un rafforzamento dell’Umanesimo per contrastare gli stessi limiti umani.

– Devo dire onestamente che non mi sorprendono mai le posizioni di prestigio che molti di loro hanno saputo conquistarsi. Ho ex alunni che vivono dappertutto nel mondo e si sono fatti strada. Non me ne stupisco sia quando “in nuce” mostravano già delle grandi potenzialità sia quando apparivano riottosi nei confronti della scuola. Ho sempre avuto una grande capacità empatica nei loro confronti e spesso mi sono ritrovata a pensare che gli studi intrapresi dai miei ragazzi erano semplicemente quelli sbagliati, e che, trovata la strada della loro passione, avrebbe comunque dato buoni frutti… devo dire che raramente mi sono sbagliata. Proprio ultimamente ho avuto una lunga chiacchierata con un alunno che si è diplomato per il rotto della cuffia, eppure oggi avviato ad una brillante carriera di compositore musicale. A volte è la stessa famiglia che soffoca i talenti dei figli e li costringe, sia pure in buona fede, a scelte obbligate e sbagliate. Se sono abbastanza forti di loro o quando – fragili come sono quasi tutti i ragazzi nell’adolescenza – trovano in anni focali per la costruzione del sé persone che comunque li capiscono e danno fiducia, poi volano. Ecco perché la mia professione è delicata e importante: una nostra parola può affossare per sempre o salvare. Piuttosto, mi stupisco e mi addoloro se so di ragazzi eccezionali a scuola che poi nella vita reale non si sono realizzati secondo le aspettative: ma qui entrano in gioco tanti fattori, congiunture negative, casi sfavorevoli che si susseguono e li inchiodano ad un futuro diverso da quello sognato… Mi chiedo spesso se tante volte il caso non sia frutto di un destino predeterminato e me ne tormento.

– Riporterei l’orologio della Storia indietro di 60/70 anni, ma forse sono solo una nostalgica. E comunque, per inguaribile ottimismo, confido nelle teorie vichiane: dopo la barbarie tornerà la civiltà

– La donna del tenente francese in tv, Estranei al cinema, un capolavoro. Sono un’appassionata cinefila. Il cinema è una grande forma d’arte e come tale fa bene al cuore e nutre la mente.

– Come tutti, credo, da ragazza. Ma fare poesia è una cosa seria, richiede umiltà e un duro lavoro di apprendistato, tanta tanta lettura di poeti e conoscenza della metrica (anche se oggi nessuno la segue. Ma lo stesso Ungaretti prima di liberarsene l’aveva studiata con cura e “M’illumino d’immenso” è un perfetto settenario). Attualmente mi pare ci sia troppa improvvisazione. No, la poesia mi piace ovviamente, ma preferisco…i racconti. Più congeniali.

– Sicuramente Montale con cui il processo di perdita di ruolo della poesia raggiunge l’acme e i cui versi hanno comunque un potente significato politico nell’accezione più ampia del termine, quella aristotelica, intendo. Tutta l’autentica poesia successiva gli è debitrice.

– Ai miei genitori, perché parafrasando Montale non so ancora chi fra noi è partito e chi è restato.